Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
-
03/06/2019 - MATERIA OSCURA PERSA E RITROVATA
MATERIA OSCURA PERSA E RITROVATA
Nel corso del 2018 ha destato un certo clamore la scoperta di una galassia ultradiffusa pressoché priva di materia oscura. Tali oggetti sono impossibili da conciliare tra l’attuale teoria sulla formazione galattica, poiché la materia oscura è un elemento fondamentale per spiegare il collasso del gas previsto nella formazione stellare e non solo.
Ora un lavoro di un gruppo di ricercatori dell'Instituto de Astrofísica de Canarias (IAC) guidati da Ignacio Trujillo potrebbe aver risolto il mistero dopo aver condotto una serie di osservazioni proprio su NGC 1052DF2, la ormai famosa “galassia senza materia oscura”.
Il gruppo IAC ha rilevato che i parametri dipendenti dalla distanza della galassia erano anomali, perciò hanno rivisto tali dati usando ben cinque metodi indipendenti per stimarne la distanza, giungendo alla conclusione che NGC 1052 DF2 è più vicina di un terzo rispetto alle precedenti stime.
La nuova stima di distanza porta questa galassia a 42 milioni di anni luce, e grazie a questo risultato, i parametri del sistema tornano a essere nella norma e simili a quelli di altre galassie a bassa luminosità superficiale.
Tuttavia, qualche carattere non comune questa galassia lo possiede. La nuova analisi ha dimostrato che la sua massa complessiva è la metà di quanto era stimato in precedenza, ma la massa delle stelle è invece appena un quarto. Ciò implica che una parte significativa della massa totale deve essere costituita da materia oscura. A prescindere dal colpo di scena, questo studio evidenzia, ancora una volta, quanto sia complicato stabilire la distanza di un oggetto extragalattico.
Giuseppe Donatiello
-
01/06/2019 - L’IMMAGINE DIRETTA DI UN NUCLEO GALATTICO ATTIVO
L’IMMAGINE DIRETTA DI UN NUCLEO GALATTICO ATTIVO
La prima immagine di un buco nero, lo scorso aprile, ha distratto l’attenzione da un’altra notevolissima osservazione riguardante i Nuclei Galattici Attivi (AGN). Parliamo della prima osservazione diretta di un toro di gas e polveri che circonda un buco nero supermassiccio e, nello specifico, quello della galassia Cygnus A, una delle più potenti radiosorgenti cosmiche, rilevabile anche con una buona strumentazione amatoriale.
A riuscire nell’impresa (Figura) è stato un gruppo di radioastronomi guidati da Chris Carilli, del National Radio Astronomy Observatory (NRAO), utilizzando il Very Large Array (VLA).
Sotto la denominazione di AGN viene riunita una varietà di sorgenti che, in base alla fenomenologia osservata, definiamo quasar, blazar o galassie di Seyfert. In comune hanno il “motore centrale”: un buco nero supermassiccio, da cui emergono radiazioni di ogni tipo e getti relativistici estesi anche per migliaia di anni luce.
Dagli studi si è compreso che la differente fenomenologia è funzione del diverso angolo con cui si osservano gli AGN, il cui modello tipo include un buco nero centrale, un disco di accrescimento costituito da materiale in caduta e due getti che partono dai poli del disco. Questi tre elementi insieme non producono fenomeni dipendenti dall’angolo di vista; perciò, per spiegare quanto si osserva, si è aggiunto al modello un quarto elemento costituito da un toroide di polveri e gas, spesso e opaco, che circonda il motore centrale e, in base all’angolo di vista, ne occulta alcune caratteristiche. Quindi, oggetti conosciuti con nomi diversi, sono sempre lo stesso oggetto astrofisico, visto da prospettive diverse.
Cygnus A si trova a circa 760 milioni di anni luce nella costellazione del Cigno e fu scoperta nel 1946 dal radioastronomo J.S. Hey. La controparte fu invece identificata in un’anonima galassia di mag. 15 da W. Baade e R. Minkowski nel 1951.
Questa lontana galassia ospita nel nucleo un buco nero da 2,5 miliardi di masse solari ed è il responsabile di quanto si osserva, compresi due enormi lobi di emissione radio. Tra le radiogalassie più intense, Cygnus A è la più vicina, quindi il soggetto più adatto per essere studiato nel dettaglio al fine di scorgere particolari interessanti, sfruttando l’enorme risoluzione spaziale offerta dal sistema interferometrico VLA per risolvere il suo AGN e di rivelare direttamente il toroide di gas, che ha un raggio di circa 900 anni luce.
Giuseppe Donatiello
-
31/05/2019 - I NUCLEI GALATTICI ATTIVI INIBISCONO O AIUTANO LA VITA?
I NUCLEI GALATTICI ATTIVI INIBISCONO O AIUTANO LA VITA?
Come fiorisce la vita? Quali ambienti sono necessari al suo mantenimento? Quali condizioni possono minacciarne l'esistenza? Queste sono alcune delle molte domande dell'astrobiologia, la disciplina che si occupa della vita fuori dalla Terra. Si parla spesso di Zone Abitabili e ambienti favorevoli alla vita in base alla disponibilità di fonti energetiche legate alle stelle ospiti oppure a specifiche condizioni endogene gli esopianeti, ma poco si è indagato sugli effetti prodotti da altre fonti di radiazioni. Ora uno studio ha esplorato le condizioni estreme nei pressi dei nuclei galattici attivi (AGN).
Gli AGN, ospitano enormi buchi neri supermassicci che voracemente si stanno accrescendo dal gas e polveri presenti nell’ambiente circostante, emettendo grandi quantità di radiazioni ad alta energia. D'istinto viene da ritenere tali ambienti alquanto sterili e poco favorevoli alla nascita ed evoluzione della vita extraterrestre, ma lo studio condotto da Manasvi Lingam dell’Harvard University e collaboratori, suggerisce che potrebbe essere piuttosto vero il contrario: la radiazione degli AGN ha il potenziale di accrescere le probabilità di formazione e sopravvivenza della vita per come la conosciamo.
Gli studiosi hanno dapprima valutato gli aspetti negativi dell'avere un'intensa fonte di radiazioni ad alta energia nei paraggi, come quelle ultraviolette. Un eccesso di radiazioni UV può, infatti, inibire la fotosintesi - un processo su cui si basa e si sostiene la stragrande maggioranza della vita sulla Terra – così come l'effetto ionizzante può danneggiare il DNA e altre biomolecole.
Ma quanto vale tale eccesso? Lingam e colleghi hanno potuto dimostrare che un AGN non ha un grande impatto sui pianeti presenti nella sua galassia ospite. Il gruppo ha, infatti, stimato che la regione potenzialmente pericolosa si aggira intorno a un centinaio di anni-luce intorno alla zona centrale, una regione piuttosto piccola in proporzione alla dimensione media delle galassie. Tuttavia, una certa quantità di radiazione UV può avere altresì effetti benefici, giacché è un elemento necessario per alcune reazioni chimiche prebiotiche essenziali per la sintesi di molecole complesse.
Gli autori hanno dimostrato che, entro una certa distanza dall'AGN (circa 150 anni-luce), la radiazione UV emessa dal buco nero potrebbe offrire l'imput energetico proprio per quelle reazioni chimiche da cui si suppone fiorisca la vita. Anche la luce visibile prodotta dall'AGN potrebbe alimentare la fotosintesi su pianeti a esso prossimi, persino su mondi fluttuanti orfani di una stella in una regione abbastanza ampia, estesa per più di mille anni-luce in una galassia come la nostra.
In definitiva, gli studiosi hanno scoperto che un AGN non ha significativa influenza su gran parte di una tipica galassia e degli effetti va tenuto conto sino a circa 3000 anni-luce dal centro. Per altri tipi di galassie, come le giganti e le nane compatte, la presenza di un AGN potrebbe essere persino benefica per stimolarla e mantenerla.
In Figura, immagine artistica di un AGN e del toro di gas e polveri che lo circonda. Al centro si annida un buco nero supermassiccio.
Giuseppe Donatiello
-
31/05/2019 - IL “PICCOLO” TNG DA RECORD
IL “PICCOLO” TNG DA RECORD
IL “PICCOLO” TNG DA RECORD
Gloria Guilluy, dottoranda all’INAF di Torino, e altri autori italiani hanno ottenuto un nuovo record al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) alle Canarie: la prima rivelazione di metano con spettroscopia ad alta risoluzione nell’atmosfera di un esopianeta di tipo gioviano caldo.
Denominato HD 102195b e scoperto nel 2005, il pianeta ha una massa circa la metà quella di Giove e orbita in soli 4 giorni attorno a una stella simile al Sole che si trova a circa 95 a.l. di distanza. Gli scienziati ritengono che sia un pianeta gassoso, di tipo “gioviano caldo”, pur non conoscendone la dimensione, perché corpo non transita mai di fronte alla sua stella.
In un caso del genere, “non si analizza la variazione della radiazione stellare attraverso l’atmosfera dell’esopianeta, come si fa con la spettroscopia di trasmissione ad alta risoluzione spettrale per i pianeti transitanti”, spiega Guilluy, “ma si va a studiare lo spettro emesso dal lato diurno del pianeta quando si trova alla massima distanza dalla Terra (congiunzione superiore)”.
Utilizzando lo spettrografo infrarosso ad alta risoluzione Giano al TNG, il gruppo di ricerca italiano è riuscito a rilevare nell’atmosfera di HD 102195b un’impronta tipica dell’acqua e una del metano, distinguendo tali impronte dai segnali simili indotti dall’atmosfera terrestre.
Oltre al successo per la rivelazione di metano, con questo studio si è dimostrato che anche telescopi come TNG (diametro 3,58 m) possono caratterizzare le atmosfere dei pianeti non transitanti. Studi di questo tipo finora erano stati condotti utilizzando principalmente spettrografi montati su telescopi di 8-10 m di diametro. E sappiamo quanto sia importante il segnale del metano per la ricerca di tracce di vita aliena.
In Figura, Gloria Guilluy sullo sfondo del TNG (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
-
27/05/2019 - ACQUA SULLA TERRA: TUTTO MERITO DI THEIA?
ACQUA SULLA TERRA: TUTTO MERITO DI THEIA?
Perché la Terra è il posto migliore per vivere nel Sistema Solare? Grazie ad alcune condizioni speciali: prima fra tutte, siamo alla distanza giusta dal Sole, per avere acqua liquida sulla superficie (ci troviamo, cioè, nella “zona di abitabilità” della nostra Stella). La Terra è anche l’unico pianeta roccioso ad avere una luna abbastanza grande da stabilizzarne l’asse. Ma l’acqua terrestre e la Luna potrebbero essere a loro volta collegate, come sostengono tre planetologi dell’Università di Münster (Germania).
I tre esperti ritengono che l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta 4,4 miliardi di anni fa con la formazione della Luna. La teoria più accreditata afferma che il nostro satellite è il risultato di un violento impatto tra la Terra e Theia, un oggetto grande circa quanto Marte (Figura). La collisione provocò l’espulsione di un’enorme quantità di materiale che, condensandosi, diede origine a un disco attorno alla Terra, dal quale poi prese forma la Luna.Finora, Theia è stato classificato come un oggetto del Sistema Solare interno, mentre i ricercatori tedeschi sostengono che sia arrivato dalla periferia del sistema, la stessa regione da cui provengono le comete, ricche di acqua, e le condriti carbonacee, meteoriti ricche di composti organici.
I ricercatori hanno effettuato delle misurazioni utilizzando isotopi di molibdeno, che permettono di distinguere il materiale carbonaceo da quello non carbonaceo, più “secco”, rappresentando dunque una sorta di “impronta genetica” del materiale proveniente dal Sistema Solare esterno e interno.
Studiando gli isotopi di questo metallo, emerge che il molibdeno accessibile nel mantello terrestre risale agli ultimi stadi della formazione del nostro pianeta, mentre quello più antico è interamente nel nucleo. Questo significa che il materiale carbonaceo proveniente dal Sistema Solare esterno (quello più “acquoso”) è arrivato sulla Terra in un secondo momento.
Secondo il planetologo Thorsten Kleine, la fornitura più copiosa di molibdeno è avvenuta proprio in seguito all’impatto con Theia, che ha fornito anche il materiale carbonaceo e l’acqua. Per dirla in breve, senza la Luna, probabilmente non avremmo la vita sulla Terra (fonte: Media-INAF)
Piero Stroppa
-
24/05/2019 - 18 nuovi esopianeti di taglia terrestre
18 nuovi esopianeti di taglia terrestre
Dei circa 4000 esopianeti conosciuti, il 96% è significativamente più grande della nostra Terra con una preponderanza di corpi comparabili in dimensioni e struttura ai giganti gassosi come Nettuno o Giove. È abbastanza chiaro che tale percentuale non rappresenti la situazione reale ma sia piuttosto uno specchio delle limitate capacità nel trovare oggetti di dimensioni minori nelle ricerche pregresse per oggettive limitazioni strumentali nei metodi di ricerca. Si ritiene, infatti, che gli oggetti di taglia terrestre siano almeno in numero pari ai giganti gassosi e la loro scoperta è una delle maggiori sfide in tale ambito poiché la taglia terrestre – definizione che in passato ha generato non pochi equivoci – è considerata una condizione necessaria, specialmente se abbinata alla giusta distanza dalla stella ospite, per offrire le premesse migliori allo sviluppo di un habitat idoneo a sostenere forme di vita.
Un gruppo di scienziati del Max Planck Institute for Solar System Research (MPS), della Georg August University di Göttingen e Sonneberg Observatory, con un articolo pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, ha annunciato la scoperta di ben 18 esopianeti di dimensioni terrestri che non erano stati rilevati in precedenza nei dati del Kepler Space Telescope della NASA con il metodo dei transiti davanti alla loro stella. Uno di essi è tra gli oggetti rocciosi extrasolari più piccoli conosciuti con dimensioni pari al 69% della Terra (circa quanto Mercurio), uno potrebbe offrire condizioni favorevoli alla vita, mentre il più grande tra essi è appena più del doppio della Terra.
Secondo gli autori, questi e altri pianeti di taglia terrestre non erano stati rilevati nei dati di Kepler più per una questione di metodo che per veri limiti strumentali, infatti, hanno fatto notare come i pianeti giganti siano più facili da registrare per via del calo netto nella curva di luce prodotta durante il transito, mentre i pianeti più piccoli risentono in modo apprezzabile dell’oscuramento al bordo sul disco della stella. Pur non essendo rilevabile direttamente, come per esempio per il nostro Sole, l’oscuramento al bordo dei dischi stellari c’è e condiziona la rilevazione dei pianeti più piccoli perché tende a produrre curve luminose più piatte e meno registrabili. In altri termini, il minuscolo disco planetario blocca inizialmente meno luce rispetto a una pozione più centrale davanti alla stella. Il gruppo ha quindi sviluppato un algoritmo che, con un fattore correttivo, rende la registrazione di questi specifici transiti nettamente potenziata, semplicemente assumendo una curva di luce più attinente alla realtà.
Per testare il nuovo algoritmo, il gruppo ha utilizzato i dati prodotti nella missione K2, analizzando tutte le 517 stelle già conosciute per ospitare almeno un pianeta in transito. Oltre ai pianeti già noti intorno ad esse, i ricercatori sono stati capaci di evidenziare la presenza dei 18 nuovi oggetti, la maggior parte dei quali orbita più interna rispetto agli altri membri di quei sistemi, con temperature superficiali ben superiori ai 100° Celsius. Soltanto uno dei nuovi esopianeti sembra essere posto nella zona abitabile di una stella nana rossa. Pur essendo ancora perfettibile, soprattutto per gli oggetti a grandi distanze dalle stelle ospiti, questo metodo ha fornito prova di funzionare egregiamente e potrà essere utilizzato per una revisione dei dati della missione primaria di Kepler, in cui il gruppo spera di trovarne ancora un centinaio, nonché applicato per migliorare le rassegne in corso e per preparare al meglio le prossime, come la missione PLATO in programma per il 2026.
Giuseppe Donatiello
-
19/05/2019 - PROIETTILI DI MATERIA OSCURA NELLA GALASSIA?
PROIETTILI DI MATERIA OSCURA NELLA GALASSIA?
Si ritiene che le grandi galassie si siano accresciute ai danni di quelle più piccole, distrutte dall’azione gravitazionale e assorbite dalla struttura, principalmente nel bulge e più diffusamente nell’alone. Tuttavia, tali processi di completo assorbimento sono piuttosto lenti e un gran numero di detriti, disposti in ampi archi di stelle, sono stati identificati sulla volta celeste.
Stiamo parlando dei flussi stellari (stellar stream), il cui studio rientra nell’archeologia galattica, lo studio della formazione della Via Lattea e in generale delle galassie. Studiare i flussi stellari è utile per comprendere l’evoluzione delle galassie ed è uno strumento valido per sondare le proprietà degli aloni di materia oscura che fungono da collante per la materia ordinaria.
Tra i successi dell’archeologia galattica figura la scoperta del flusso stellare GD-1. Questo lungo e sottile filamento di stelle si estende all’esterno della Via Lattea ed è stato già studiato, soprattutto di recente, grazie ai dati astrometrici del satellite Gaia. Grazie ai dati più recenti, si è potuta tracciare in dettaglio la densità stellare di GD-1, che presenta alcune evidenti discontinuità. Gli addensamenti possono essere retaggi del progenitore (nel caso di GD-1 potrebbe essere la disgregazione di un ammasso globulare), mentre le lacune, che si estendono per dimensioni comprese tra i 30 e i 65 anni luce, sono tutte da interpretare. Secondo uno studio di Ana Bonaca, ricercatrice presso l'Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, qualcosa dalla natura incerta si è scontrato con GD-1.
Una lacuna di GD-1 presenta il bordo frastagliato, che sembra essere stato prodotto da qualcosa di enorme che abbia colpito in pieno lo stellar stream, tranciandolo e trascinandosi dietro un certo numero di stelle, Affinché ciò sia possibile, il proiettile deve avere “qualcosa come un milione di volte la massa del Sole. Ma non ci sono stelle di quella massa. E se fosse un buco nero, sarebbe un supermassiccio come quello che si trova al centro della Galassia ', ha detto la ricercatrice.
Non sappiamo quando e come ci sia stato lo scontro, ma non dovrebbe essere avvenuto molto tempo fa; pertanto, il proiettile non dovrebbe essere molto lontano. L’ipotesi del buco nero supermassiccio si può accantonare perché non rileviamo gli effetti che produrrebbe il suo enorme disco di accrescimento; pertanto, si pensa a un addensamento compatto e massiccio, in larga parte costituito da materia oscura, dato che non si conoscono altri oggetti astrofisici capaci di produrre gli effetti osservati.
La possibilità di essere alle prese con oggetti esotici è intrigante: questi proiettili che si tuffano nella Via Lattea offrirebbero la prova regina dell’esistenza della materia oscura sotto forma di globuli massicci e densi che circondano la Galassia.
In Figura, il flusso stellare GD-1 è indicato nell’immagine superiore ricavata con studi di densità stellare nei dati della SDSS8. In basso, il recente studio, con dati del satellite Gaia, in cui sono state rilevate le lacune (gaps) lungo la struttura che si estende per molti gradi nel cielo settentrionale.
Giuseppe Donatiello
-
ONDE GRAVITAZIONALI PER TUTTI CON [email protected]
Lo scorso 8 aprile, due giorni prima del debutto in società del buco nero centrale di M87, un altro mostro cosmico è salito alla ribalta: quello prodotto dalla fusione di una coppia di buchi neri avvenuta a 4 miliardi di anni luce da noi. In questo caso, non è stata diramato un’immagine, ma un gravitational wave alert, cioè l’annuncio della possibile rivelazione di un’onda gravitazionale.
A differenza di precedenti alert del genere, quello di aprile è stato diramato pubblicamente. E non si è trattato di un’eccezione: ormai tutti i segnali di potenziali onde gravitazionali rilevati dagli interferometri della collaborazione LIGO-Virgo verranno resi pubblici immediatamente.
Se pensiamo che il primo di questi eventi, quello del 14 settembre 2015, venne annunciato ufficialmente solo cinque mesi dopo, il cambiamento è epocale: significa che il processo di rivelazione dei segnali è sufficientemente maturo da poter essere condiviso senza timore. Anzi, prima viene condiviso e meglio è.
“Più in fretta riveliamo una fonte di onde gravitazionali, e prima i telescopi che operano su tutte le bande elettromagnetiche possono mettersi a cercare un segnale elettromagnetico dalla stessa sorgente”, spiega David Reitze, direttore dei laboratori LIGO. “E catturare il segnale elettromagnetico il prima possibile è, in molti casi, la chiave per comprendere le dinamiche dell’evento, rivelandone la vera natura”.
Oltre che multimessaggera, la nuova astronomia si fa sempre più anche multidestinataria. Per coinvolgere più persone possibile, il team di LIGO e Virgo ha messo a punto la APP Gravitational Wave Events (Figura) per ricevere le notifiche in tempo reale direttamente sul proprio iPhone.
E non finisce qui: per coinvolgere i comuni cittadini – o meglio, le loro CPU – nel processo di interpretazione dei dati gravitazionali, è nato il progetto [email protected]. Ultimo arrivato della celebre serie di prodotti per il calcolo distribuito sorti attorno alla piattaforma BOINC (quella di [email protected]), [email protected] sfrutta il tempo morto dei computer per simulare la più ampia varietà possibile di fusioni fra buchi neri, così da poter determinare con sempre maggior sicurezza le caratteristiche dei sistemi all’origine di ogni particolare “firma gravitazionale” rivelata dagli interferometri.
Insomma, chi non ha la CPU particolarmente intasata e desidera devolvere un po’ di megaflop alla causa della gravità, [email protected] è lì che lo aspetta! Per informazioni e adesione al progetto, vedi il sito http://bit.ly/2VNWpuz (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
-
19/05/2019 - UNA PISTA DA PATTINAGGIO LUNGA 6300 KM
UNA PISTA DA PATTINAGGIO LUNGA 6300 KM
Dal corposo archivio della prolifica missione spaziale Cassini continuano a spuntare sorprese. Una ricerca internazionale, guidata dall’Università dell’Arizona e a cui ha partecipato Giuseppe Mitri dell’Università “D’Annunzio” di Pescara, ha scoperto un’inaspettata conformazione geologica su Titano, la principale luna del sistema di Saturno.
Si tratta di una cintura ghiacciata, che avvolge Titano per una lunghezza equivalente a più del 40% della sua circonferenza. “La missione Cassini-Huygens ha mostrato che la superficie di Titano è ricoperta da uno strato di sedimenti organici, sotto il quale si trova una spessa crosta di ghiaccio d’acqua di circa 50-100 km, che si sovrappone, a sua volta, a un oceano”, ha commentato Mitri. “La recente analisi della superficie di Titano, che ha utilizzato i dati spettrali di Cassini, ha rivelato l’esistenza di una lunga ed estesa cintura di ghiaccio d’acqua esposto lungo le regioni equatoriali” (mappato in blu in Figura).
Il gruppo di ricerca ha analizzato gli oltre 13 mila spettri ottenuti dallo strumento VIMS di Cassini (realizzato con un forte contributo italiano) con una nuova tecnica, che ha permesso di ottenere dettagli inediti della superficie di Titano, che risulta perennemente nascosta dalla fitta foschia presente in atmosfera.
L’atmosfera è composta essenzialmente da azoto e da una piccola percentuale di metano, che viene mantenuta da fonti interne, dato che il metano atmosferico viene degradato dall’azione solare, andando a sedimentarsi sulla superficie.
Una teoria ipotizza che il metano provenga da serbatoi situati nel sottosuolo, ed è proprio andando a caccia di questi giacimenti, che i ricercatori si sono imbattuti nel gigantesco corridoio di ghiaccio.
Una scoperta che ha sorpreso i ricercatori, in quanto non corrisponde a nessuna conformazione rintracciabile sulla superficie o nel sottosuolo. Siccome non vi sono tracce di attività crio-vulcanica nel presente geologico, potrebbe trattarsi della traccia di fenomeni avvenuti in passato, messi a nudo da processi d’erosione (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
-
19/05/2019 - FOTO DI GRUPPO CON 265 MILA GALASSIE
FOTO DI GRUPPO CON 265 MILA GALASSIE
È un mosaico dell’Universo remoto: una spettacolare immagine che documenta 16 anni di osservazioni del 29enne telescopio spaziale Hubble. A comporlo è stato il team internazionale del progetto Hubble che l’ha battezzato Hubble Legacy Field.
La gamma di lunghezze d’onda che hanno contribuito a creare l’immagine va dall’ultravioletto al vicino infrarosso, per catturare tutte le caratteristiche delle galassie riprese, circa 265mila, vecchie fino a 13,3 miliardi di anni, con quelle più lontane dotate di una luminosità apparente 10 miliardi di volte più debole di quella percepibile dai nostri occhi.
Il mosaico è stato ottenuto combinando le più importanti survey di campo profondo che Hubble abbia mai compiuto, le osservazioni dell’Universo più remoto, dove giacciono le galassie primordiali, quelle più interessanti per misurare le dimensioni e l’età dell’Universo e testare le teorie sulla sua origine: quella del 1995, la spettacolare Hubble Ultra Deep Field del 2004, per finire con l’Extreme Deep Field del 2012, ottenuta a sua volta combinando 10 anni di osservazioni di una porzione di cielo all’interno del campo visivo originale di Hubble.
In totale, il ritratto è stato creato a partire da 7500 esposizioni individuali ed è il primo della serie Hubble Legacy Field, che comprende il lavoro collettivo di 31 programmi Hubble portati avanti da diversi gruppi di ricerca.
“È un’immagine destinata a restare insuperata fino a che non verranno lanciati i futuri telescopi spaziali come il James Webb” dice Garth Illingworth, leader del team che ha creato il mosaico.
Il mosaico completo non è concretamente pubblicabile: non si vedrebbe nulla! Quello riportato in Figura è solo uno shot, ma è assolutamente da provare la versione zoomabile del mosaico, all’indirizzo www.spacetelescope.org/images/heic1909a/zoomable per un viaggio personalizzato verso i confini dell’Universo (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa